

II sorriso in Leonardo
L’interesse forse più diffuso e popolare nei confronti di un’opera leonardesca è quello che dappertutto e in ogni tempo si è esercitato verso il sorriso della Gioconda. In realtà altri personaggi di Leonardo posseggono lo stesso sorriso — sottile e ironico, a labbra serrate — della protagonista di questa famosa tavola parigina. Si considerino infatti le figure della Vergine e della S. Anna nel cartone e nella tavola dall’omonimo titolo; la Leda, di cui non è sopravvissuto l’esemplare del maestro, ma le cui derivazioni mostrano un’indubbia fedeltà al modello leonardesco ; il misterioso, chiaroscurato Battista.
Il sigillo di Leonardo si è, per così dire, impresso sul volto di ciascuna di queste figure per via di quel sorriso che non ha niente di ambiguo, ma che ci lascia in verità un po’ perplessi per quel po’ di ironico e di allusivo che possiede. Un sorriso di questo tipo non è — figurativamente — un’invenzione di Leonardo. Lo si trova in certe sculture del Quattrocento fiorentino, come nella Vergine di Antonio Rossellino nel tondo marmoreo della Cappella del Cardinale di Portogallo in S. Miniato al Monte e molto più diffusamente, nelle opere del suo maestro Verrocchio. In questi casi ha una funzione ben precisa: quella di ravvivare in senso pittorico la rinnovata scultura rinascimentale, a cui il fondatore Donatello aveva impresso forma severa ed eroica; invece in Leonardo, che sicuramente si è ispirato a questa scultura e di lì lo ha derivato, da a tale sorriso una funzione e un significato del tutto diversi.
In esso può veramente dirsi che si concluda il cammino leonardesco attraverso i contenuti della pittura. Dalla rappresentazione dell’infanzia e del sentimento materno nelle Madonne giovanili, a quella degli stati d’animo e del movimento nell’Adorazione, alla sintesi drammatica e corale del Cenacolo, si giunge alla riconsiderazione della personalità individuale nei ritratti. A questo punto Leonardo doveva trovare l’espressione formale dell’atteggiamento dell’uomo di fronte al mondo che lo circonda, a quella natura che pur indagata con tanta attenzione, lascia ancora segreta gran parte di sé.
Questo sentimento misto di sicurezza e incertezza non può esprimersi che nel volto: e nel volto ciò che da espressione è il sorriso. Non un sorriso totale, di gioia o ilarità irrefrenabile perché ciò non esprimerebbe i dubbi che si celano nell’animo umano, ma un sorriso colmo d’ironia e d’intelligenza, cosciente dei limiti della conoscenza dell’uomo; un sorriso, infine, in cui la concezione del mondo di Leonardo si riflette e si rivela nella sua completezza. E in questa limitata espressione di sentimento umano l’artista di Vinci riesce a sintetizzare l’atteggiamento dell’uomo verso ciò che gli sta d’intorno: espressione universale dunque, perché in gran parte valida anche oggi.
II cartone con la S. Anna
Disegnato a carboncino con lumeggiature di biacca, questo cartone si trova attualmente conservato alla National Gallery di Londra, dove giunse nel 1966 dalla Royal Academy che lo possedeva almeno fino dal 1791. Nel 1763 era stato comprato a Venezia dalla famiglia Sagredo dal fratello dell’ambasciatore inglese colà residente, Robert Udny. La datazione su cui sembrano concordare i critici è il 1498, cioè proprio allo scadere del primo soggiorno milanese di Leonardo.
Il gruppo è concepito e realizzato in un blocco unitario, dove però si raccolgono sentimenti diversi, che hanno dato luogo a differenti interpretazioni di quest’opera. La concatenazione dei moti affettivi si riflette immediatamente nell’atteggiamento delle figure, che posseggono tutte un movimento interno, cosicché l’intero gruppo sembra ruotare e comunicare in questa torsione l’intensità dei sentimenti che esprime.
L’energia della S. Anna, la dolcezza accorata della Vergine, la seria consapevolezza del Bambino, l’attenzione devota di S. Giovannino trovano la loro sintesi nella compattezza della composizione piramidale. Nessun dipinto derivò da questo cartone. Bernardino Luini, aggiungendovi S. Giuseppe, trasse pari pari da esso una tela con la Sacra Famiglia conservata attualmente alla Pinacoteca Ambrosiana di Milano.
La Gioconda
Solo la fama del Cenacolo — come abbiamo visto – può esser paragonata a quella che ormai da secoli gode incondizionatamente questo ritratto, che Leonardo tenne con sé dopo averlo eseguito e che passò direttamente a Francesco I Re di Francia e quindi nel Museo del Louvre, dov’è conservato tuttora. È opinione comune della critica che esso venisse dipinto a Firenze verso il 1503, ma si è tutt’altro che sicuri nell’identificazione del personaggio raffigurato, anche se tradizionalmente ci si è allineati sulla testimonianza del Vasari, che lo indica come Monna Lisa moglie di Francesco del Giocondo cittadino fiorentino; qui ci si limiterà a notare come questa identificazione cozzi contro altre osservazioni fatte in seguito sul dipinto: in mancanza comunque di ogni documentazione ad esso relativa, vale anche oggi l’autorità di una tradizione costituitasi nei secoli.
La struttura del ritratto supera d’un balzo lo schema antonelliano che avevamo riscontrato nelle precedenti opere del genere. Il personaggio è qui ripreso a mezza figura, seduto, leggermente inclinato di tre quarti, lo sguardo rivolto verso lo spettatore; sullo sfondo non più l’oscurità dalla quale balzi perentoria l’immagine, bensì un paesaggio « irreale e sognato, eppure preciso come una panoramica altimetrica . . . intriso di umidore e di nebbie sfatte » (Ottino Della Chiesa), certo la sintesi degli studi paesaggistici e topografici eseguiti da Leonardo anche a scopi operativi (il progetto della regimazione dell’Arno con un canale e il conseguente allagamento della Valdichiana, che lo portò a disegnare numerose carte della regione tra il mare Tirreno e gli Appennini).
Possiamo senz’altro affermare che la suggestione di questo dipinto, al di là delle osservazioni sul fascino sempre esercitato dal sorriso di questa giovane donna, perfino troppo celebrato e sul quale si son fatte mille fantasiose ipotesi, consta nella perfetta rispondenza di espressione tra personaggio raffigurato e la natura che gli fa da sfondo, resa possibile dalla tecnica dello sfumato che unifica il sentimento di indubbia ironia presente nel volto dell’effigiata – – che si fa d’altronde visione universale dell’atteggiamento dell’uomo davanti alla natura – – e la rappresentazione paesaggistica, che riesce a sintetizzare la grandiosità di un mondo che l’uomo è sulla strada di scoprire e interpretare, ma che lascia ancora molto di misterioso e di inespresso.
Leonardo supera quindi il dilemma eterno tra idea e realizzazione di essa nella realtà, perché mette a disposizione delle sue meditazioni concettuali la pittura, che è insieme mezzo espressivo e visualizzante; verifica inoltre momento per momento l’adeguatezza della sua tecnica pittorica con la sua concezione del mondo : « l’immagine, prima di arrivare alle mani del pittore, deve subire una lunga gestazione del suo spirito » (Marinoni). È lecito dire infine che nella elaborazione della Gioconda Leonardo riesce a esprimere compiutamente questa esigenza prioritaria del suo intelletto e della sua arte. In tale armonia va vista la grandezza e il valore di questo dipinto.
La S. Anna del Louvre
Sul soggetto della Vergine col Bambino e S. Anna Leonardo si era già cimentato nel periodo milanese, quando approntò il cartone con queste figure ora alla National Gallery di Londra che però non fu mai tradotto in pittura. Il dipinto che ora esaminiamo non ne è una versione né una derivazione: la sua struttura è autonoma e anche il significato concettuale varia notevolmente.
Sullo sfondo di una cerchia di montagne emergenti da vapori nebbiosi come se andassero faticosamente formandosi dal caos precedente la creazione, si erge il gruppo piramidale della S. Anna, della Vergine e del Gesù Bambino che attrae a sé un agnello, simbolo del suo futuro sacrificio. Gli impercettibili sorrisi dei volti sono l’unica espressione di sentimento presente nella tavola, che risulta in realtà un’antologia di pezzi bellissimi (le montagne, il gruppo cristologico, l’albero sulla destra), ma con scarsa relazione tra loro.
Siamo lontani dal vibrante colloquio affettivo presente nel cartone londinese; tuttavia anche nel teso gesto della Madonna che attrae a sé il Bambino mentre questi pare voglia sfuggirle per giocare coll’agnello, troviamo l’elemento tipicamente leonardesco della rappresentazione del movimento strettamente intrecciato alla struttura del gruppo: un’invenzione concettuale di straordinaria novità e che non mancherà di ispirare gli artisti che seguiranno.
L’opera, che non è terminata, fu eseguita da Leonardo quasi sicuramente con la collaborazione degli allievi durante il soggiorno fiorentino del 1508, allorquando gli fu commissionata la tavola per l’altar maggiore della Santissima Annunziata. Passò coi codici e altre opere a Francesco Melzi quando il maestro morì; fu trovata dai francesi nel 1629-30 a Casale Monferrato durante la guerra per Mantova; è esposta nel museo parigino dal 1810. Se ne conoscono numerosissime repliche, di allievi della cerchia leonardesca e anche di pittori piuttosto lontani dalla sua scuola (addirittura fiamminghi). La composizione venne tenuta presente dalla generazione che seguì Leonardo: si pensi alle numerose Madonne di Raffaello e alla Sacra Famiglia (o Tondo Doni) di Michelangelo, che mantengono appunto lo schema figurativo di questa S. Anna. Una prova in più dell’immediato richiamo e attenzione che suscitava al suo apparire ogni opera di Leonardo.
dal libro Leonardo da Vinci – Bruno Santi (Particolare delle fotografie SCALA )